Estero – fobia

Di manie contagiose ne è pieno il web. E ne è pieno il mondo della scrittura e lettura, che sembra venire afflitta da mali del tutto simili a virus che si propagano, colpendo sia gli autori che i lettori. C’è stato il triste e lungo momento in cui non si faceva altro che guardare se in un libro si rispettasse la regola dello “show don’t tell” oppure se il “POV fosse coerente”. La storia non importava: erano le regole rispettate che facevano di un libro un buon libro.

cavallo

Follia? Quanto quella di chi si dispera cercando le incoerenze, i particolari che non rispecchiano la realtà, non tenendo conto che in un romanzo già i protagonisti sono di fantasia. Poi magari questa gente non capiva neppure ciò che aveva letto, non ci entrava nella storia. Sapeva solo che il “POV è ballerino” o “Hai raccontato troppo e non mostrato”.

Ma adesso sto notando che ce n’è un’altra di queste malattie ed è squisitamente italiana. Una cosa di cui andare fieri e orgogliosi, come no. C’è la mania del parlare di “esterofilia”. Ne ha parlato anche Davide QUI, toccando lo stesso argomento.
Io mi sono trovato spesso con un’altra sfumatura di questa mania, di questo nodo mentale che si sta diffondendo. Forse ne ho già parlato in passato e non ricordo, ma mi è tornato in mente dopo aver letto una recensione a Le Nove Stelle che mi ha fatto sganasciare per la superficialità con cui è stato letto il testo e come è stata scritta la stessa. Più o meno si riassumeva in alcune fasi:

“Insopportabili i nomi utilizzati Rusty , Jon , Nik ecc ecc ma è mai possibile che un romanzo ambientato in Italia utilizzi orribili nominativi inglesi”

Il lettore pare non aver fatto che scorrere le parole. Nel libro non c’è nessun Jon . Viene citato un Nick e non un Nik. Rusty non è un nome ma un soprannome. E fin qui già c’è qualcosa che non funziona. Non funziona nemmeno il fatto che il lettore stabilisca che il romanzo sia ambientato in Italia, cosa che non viene indicata in nessuna parte.
Tralasciando poi il resto della recensione che denota una mancanza di basi di letteratura, attribuendo similitudini con un film e non con A Christmas Carol di Dickens, vera ispirazione per me che cito anche all’interno del testo. Questo è per indicare il livello medio di questi maniaci del tutto italiano. Non hanno fondamenti letterari, solo cinematografici?

Consiglio a Roberto di guardarsi questo film. Non pretendo che legga un libro di Dickens

Consiglio a Roberto di guardarsi questo film. Non pretendo che legga un libro di Dickens

Tornando sull’argomento, si ritiene che un autore italiano debba per forza scrivere romanzi ambientati in Italia, con solo personaggi italiani ecc… E chi o cosa lo stabilisce?
Siamo cresciuti come cittadini del mondo, importando prodotti letterari e non dall’estero, indossando marche non solo italiane ma straniere, parlando (chi ha la mentalità aperta) altre lingue. Sapremo girare più facilmente un teen horror all’americana che uno ambientato a due regioni di distanza dalla nostra.

Scusate, ma i polizieschi all'italiana a volte mi fanno pensare a questo

Scusate, ma i polizieschi all’italiana a volte mi fanno pensare a questo

Questa regola imporrebbe che io scrivessi solo dei luoghi che conosco, con nomi italiani. Ciò equivale a dover fare un giro di provincie che conosco bene e basta. Storie sempre tra Modena, Reggio, Mantova e Verona. Potrei, ma non devo sentirmi obbligato.
Dovrei usare sempre e solo nomi italiani e per intero, senza azzardarmi a usare diminutivi o soprannomi per evitare che qualche santone venga a criticare l’uso di un nome straniero. (Gesù, nessuno di voi ha un amico di nome Christian? Come lo chiamate?)

Al contrario, io rimango convinto che ogni autore abbia il diritto di ambientare la propria storia dove gli pare e piace, senza porsi limiti, soprattutto in questi anni dove abbiamo potenzialità enormi per poterci documentare. Io stesso leggo un autore, John Connolly, che sebbene sia irlandese, scrive storie ambientate in Usa e non mi sembra che gli irlandesi lo stiano boicottando o criticando, e gli statunitensi neppure.
Chiudo con una domanda: cosa vogliamo farne di Salgari a questo punto?

8 commenti

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  1. Non credo che chi scriva fantascienza ambientata nel 10.000 DC provenga da quel periodo!

    1. Esempio azzeccato. Come per chi scrive fantasy classico (Sword and Sorcery). Sono idee strampalate che non so come nascano.

  2. Ma limitarsi a giudicare una storia in base alla trama non è più di moda?
    Ci si deve sempre aggrappare al particolare per lanciare anatemi e per scrivere recensioni buffonesche.

    A me poi questa faccenda dell’ambientazione scivola via con facilità.
    Mi piace leggere (e scrivere) storie ambientate in Italia (ottima, in questo senso, la trilogia vampiresca di Vergnani) e, in pari maniera, adoro leggere (e scrivere) storie ambientate altrove.

    Purché la trama sia di mio gradimento.

    1. L’ambientazione deve essere “serva” della storia. Sono problemi che non ci si dovrebbe mai porre, in quanto cittadini del mondo, ormai. Evidentemente c’è chi non ci riesce. Forse si sente o non all’altezza o eccede di superbia e di campanilismo estremo.

  3. Faccio sempre più fatica a reggere queste cose…
    Se leggo un libro quello che mi interessa è la trama, il ritmo, quanto l’autore ha saputo reggere il filo della storia. Non come si chiamano i personaggi o dove diamine stanno andando (se questo non è una componente fondamentale del libro stesso).
    Io che non ho viaggiato quasi, cosa dovrei fare? Scrivere storie su Forlì e dintorni?
    Invece non ho quasi mai scritto nulla di “locale”, preferendo altre ambientazioni per le mie storie.

    1. Io non le capisco queste correnti di pensiero, che per carità, se esistessero e venissero espresse con educazione e seguite da chi ci crede, non darebbero problemi. È questo atteggiamento di voler trasmettere le cose agli altri che dà noia.

  4. È una ricerca dello scarico di responsabilità.
    Se il manuale dice “scrivi ciò che conosci”, “mostra e non raccontare”, “un solo POV” e io applico caninamente queste regole, senza pensare, senza discutere, senza riflettere, senza cercare margini di manovra, allora non ho responsabilità, non corro rischi, non posso essere io che sbaglio.
    Ho semplicemente eseguito degli ordini.
    È un atteggiamento suicida in un autore.
    In chi legge, è semplicemente stupido – anche perché chi legge non mi deve editare, mi deve leggere.

    1. Sarebbe bello infatti che il lettore leggesse, e leggesse bene senza scorrere solo le parole.

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