Questo 2018 potrei ricordarlo come l’anno in cui mi sono riappropriato della lettura, della voglia di leggere, di finirne uno e attaccarne un altro. Non so cosa sia successo, non so trovare una spiegazione, ma già dalla fine del 2017 ho raddoppiato il ritmo senza accorgermene.
Ecco, l’unica ipotesi che mi viene in mente è che ho diversificato di più, comprando libri a istinto, recuperando autori che non avevo ancora letto, rileggendo qualche classico (non solo letteratura, ma anche narrativa di genere) già passato da queste parti quando ero ragazzino.
Ma finora, quello più memorabile è stato questo Eureka Street. Okay, essendo un libro del 1996, molti diranno: “Oh, con calma, eh? Quando vuoi…”
Io l’ho letto solo ora, perché per molto tempo la narrativa di genere occupava il 90% delle mie letture, mentre nell’ultimi decennio si è ristabilito un discreto equilibrio, e alterno un genere all’altro in base a ciò che mi va di leggere al momento.
Eureka Street segue la storia di due amici di Belfast, negli anni ’90, quando i Troubles incendiavano l’Irlanda, e trovarsi nel posto sbagliato o essere della religione sbagliata poteva significare non tornare a casa, se non in un sacchetto, perché ciò che rimaneva di te poteva essere contenuto solo in quello. Jake è cattolico, Chuckie protestante. Ma loro due non si fanno grandi problemi, perché la loro occupazione principale, oltre ad andare al pub, è cercare di sistemare le loro vite.
E se Jake arranca, non trova davvero il suo centro, si ferma, torna indietro, senza mai arrendersi sul serio, ma affrontando le cose in maniera fatalista, a volte, Chukie persegue il suo scopo, senza quasi mai capire come abbia fatto.
I due punti di vista sono narrati in maniera diametralmente opposta: Jake ci parla in prima persona, con quel suo tono sarcastico e scanzonato, mentre della storia di Chukie siamo spettatori di una terza. Una scelta che apprezzo, e che per me funziona. Ero già abituato a questa struttura tramite un altro irlandese, John Connolly, quindi, non sono rimasto stranito.
Se al primo impatto, soprattutto per chi viene dalla narrativa di genere, Eureka Street può sembrare senza un capolinea, un traguardo da raggiungere, in realtà la chiave di tutto è l’affetto che si inizia a provare per i personaggi, che presto diventano quasi amici. E, insieme a loro, diventano amici anche quei casinisti che tengon loro compagnia al pub, come Septic Ted (non volete davvero sapere perché si chiama così, ve lo assicuro) o quel piccolo irriverente monello di Roche.
Girate le pagine per sapere cosa faranno, proprio come quando uscite con gli amici per una birra, e questi vi raccontano com’è andata la loro giornata.
E in più, ci sono due valori aggiunti: la curiosità per la misteriosa scritta che appare fin dalle prime pagine sui muri di Belfast, accanto a quelle dell’IRA e degli altri gruppi, e la Belfast stessa, che seppur sia sullo sfondo, con i suoi Troubles è dannatamente vicina a noi oggi. Ogni tanto, mentre sfogliate, leggete di una sirena di qua, di un botto di là, di una colonna di fumo che si leva laggiù, nel quartiere poco distante alla casa di Jake, o all’attentato, tremendo, in Fountain Street, dove i morti non sono più parte della “scenografia”, ma hanno un nome, una vita, e vediamo la fine di essa.
Leggere un libro come Eureka Street ci potrebbe ricordare una cosa importante, da tenere a mente, ogni volta che accendiamo la TV e il TG ci dà la notizia di un attentato: non c’entra il colore, la religione o il paese, perché le bombe sono sempre politiche, come lo erano durante i Troubles, quando erano i cristiani ad ammazzarsi tra di loro.
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