Raccontiamo una storia. Fulvio ama cucinare. Ama cucinare fin da bambino, quando seguiva in tv le prime trasmissioni di cucina oppure quando era con la nonna che aveva la stessa passione.
Fulvio cresce e decide di fare una scuola per diventare chef. Si fa il mazzo, buoni voti, un certo talento, e il sogno di lavorare per un ristorante importante, uno di quelli famosi, insomma.
Passano gli anni e fa fatica a trovare. L’estate la passa a lavorare nella pizzeria all’angolo, oppure alla trattoria nel paese. Aiuta perfino alla sagra, sempre in cucina.
Ci mette del suo, dicono che sia bravo. Fa da mangiare agli amici, parenti per le festività, ma logicamente le soddisfazioni arrivano quando sono gli sconosciuti che gli fanno i complimenti.
Fulvio però vuole lavorare in una grande cucina, come sogna da sempre, come abbiamo detto prima. Finalmente ha la possibilità, grazie a un’iniziativa che agevola i cuochi in gamba e che hanno voglia di fare e si apre un ristorante pizzeria. Con il budget concesso dall’ente che sponsorizza, apre un locale che ha circa 50 coperti. Spesso riesce a riempirli tutti.
Però non è contento: ha nella testa il grande ristorante, la cucina attrezzata da professionisti, con le pentole in acciaio e i coltelli in ceramica (in TV dicono che siano una figata!). E pensa e ripensa, sente qualcuno che gli dà questo consiglio:
«Fulvio, ragazzo mio, se vuoi che un ristorante importante ti assuma, devi fare il pieno nel tuo locale. Il padrone si chiederà perché tutti vengono lì e verrà pure lui a trovarti. Appena ti farà l’offerta, tu molla il ristorante e vai da lui.»
«Dici davvero?», chiede Fulvio. «Ma come faccio a fare il pieno? Lo faccio sì e no al sabato!»
«Ascolta me: io ti mando i miei amici, poi tu mi mandi i tuoi. Io parlo bene di te, tu parli bene di me. Sto già facendo così con altri ristoratori. Prima o poi funzionerà, no?»
Fulvio, ahimè, accetta. E così l’amico gli manda i conoscenti e gli fa scrivere buoni giudizi in giro.
Il nostro contraccambia ben volentieri e lo fa pure con gli altri di questo piccolo “consorzio”.
Che meraviglia, pensa Fulvio. Il locale è sempre pieno, deve mandare pure via la gente o chiedere di prenotare. È certo che presto sarà fatta.
E finalmente, come nelle favole a lieto fine, arriva la proposta: lavorare in cucina per una grande ristorante. Lui accetta, molla il suo locale e parte al galoppo!
Ora, i possibili scenari sono:
- Fulvio finisce a lavorare in realtà per una catena di fast food. Ma volete mettere? Lui lavora per un grande marchio adesso.
- Il ristoratore che lo ha contattato lo mette alla prova sulla fiducia, per poi scoprire che in realtà Fulvio è un cuoco da due soldi e che in realtà tutto era un bluff.
- Fulvio è bravo, inizia in cucina e poi scopre che guadagna mille euro al mese, gli stessi soldi che guadagnava in 3 giorni con il suo ristorante. Ma volete mettere? Lavorare per “Chez Blablabla” è gran prestigio! Quella è una cucina vera!
E tu, davvero vuoi andare a cucinare in un fast food?
15 commenti
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Dico soltanto: only in Italy!
Altrove tutti quelli bravi hanno capito che è il momento di creare la propria piccola nicchia di clienti affezionati (Seth Godin le chiama “tribù”).
Qui si cerca ancora la figura assoluta e padronale che legittima (non si sa perché) il nostro lavoro, ma a caro prezzo.
Autore
Sì, vogliono avere il bollino. Vuoi mettere aver cotto hamburger in un fast food con un nome autorevole? Magnifico!
Pero il ragionamento non contempla altri scenari possibili, tipo: Fulvio ha respinto l’offerta dell’amico imbroglione, con impegno e perseveranza, investendo le sue risorse, è riuscito a riempire il suo ristorante tutte le sere; e Chez Blablabla non è un delinquente ma una persona seria che crede nel lavoro di Fulvio e può aiutarlo a crescere ancora. No? Poi una parte consistente del discorso poggia sui soldi, che non dovrebbe essere proprio una componente fondamentale.
I soldi degli altri non sono mai una componente fondamentale.
Se loro non sanno farne a meno, è solo perché sono avidi e materialisti.
Non è quello che intendevo dire. Mi sembrava solo corretto far presente che basare il discorso sul quanto guadagni/guadagneresti, in un paese come il nostro che non legge, è come distinguere tra poco e pochissimo. E farne una questione fondamentale.
Ma qui non si parla di poco o pochissimo – qui spesso si parla di pochissimo o niente.
E se i soldi sono davvero un fattore secondario, allora perché non pagare chi fa il lavoro?
Perché cercare di far passare l’idea che “non è lavoro”?
I soldi non hanno importanza?
Bene, allora pagami.
Autore
Anche perché capisco che Fulvio ami cucinare, ma il lavoro va pagato come si deve. La gloria non riempie la pancia né alimenta altri sogni. Lansdale dice spesso: “Ti diverte ciò che scrivo? Bene, pagami ancora e ti darò altro divertimento.”
Ma perché non si può rispondere alle risposte? :/
Vabbe’, comunque capisco il discorso del poco/pochissimo/niente. Quello che intendevo dire – ripeto – è che dal tenore del post mi sembrava che uno dei motivi alla base della delusione di Fulvio fosse la sorpresa nel constatare che guadagna meno oggi di ieri, quando lavorava da solo nel suo piccolo ristorante, quando per esempio io sarei molto più deluso dallo scoprire che nel grande ristorante si cucina solo col microonde, roba surgelata, o peggio ancora si scalda roba proveniente dalle cucine di un altro ristorante. Insomma, che è tutto un imbroglio. Solo questo, volevo dire. Il corrispettivo per una prestazione lavorativa non l’ho mai messo in discussione.
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A dire il vero no: “Fulvio è bravo, inizia in cucina e poi scopre che guadagna mille euro al mese, gli stessi soldi che guadagnava in 3 giorni con il suo ristorante. Ma volete mettere? Lavorare per “Chez Blablabla” è gran prestigio! Quella è una cucina vera!”
Fulvio è così contento di lavorare da Chez Blablabla che non gli importa di guadagnare 1/10 di quello che guadagnava prima. E poi che non ho scritto che quei soldi glieli danno dopo un anno. Ma tanto Fulvio ha bisogno di dar da mangiare più al suo ego che alla pancia.
Riguardo al microonde e ai piatti surgelati? Il ristorante, se vuoi, li serve, ma mica li fa cucinare a Fulvio: Chez Blablabla li fa preparare direttamente ai camerieri.
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Oreste, gli scenari di cui parli tu prenderebbero una piega a metà racconto. Io invece sono arrivato a un punto del racconto e da lì si diramano le tre scelte.
E comunque Chez Blablabla, se proprio dovessi continuare la storia in modo diverso, terrebbe Fulvio 3 mesi, gli rinnoverebbe il contratto per altri 3, forse e poi potrebbe lasciarlo a casa.
Sai perché? Perché Chez Blablabla ha l’amico di un assessore a cui fare posto…
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Oreste, Fulvio, come ho fatto notare, guadagnava bene ma potrebbe essere passato a guadagnare nulla.
In poche parole: questo è un racconto con tre possibili finali.
Boh, non lo so. Ho conosciuto anche delle situazioni virtuose. Poche, ma sufficienti a farmi credere che non esiste solo Chez Blablabla, coi suoi contratti a tre mesi e l’amico assessore.
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Spesso chi lavora per i Chez Blablabla si vergogna (magari non si vergogna, ma non vuole perdere il posto) e non dice nulla.
Comunque sia, io a cucinare in un fast food o in un Chez Blablabla in Italia non ci tengo proprio.
Quando dico “ho conosciuto” non parlo chiaramente di sentito dire. Ad ogni modo io capisco il tuo punto di vista così come l’hai articolato, coi tre finali possibili, ci tenevo solo a dire che c’è anche la (remota) possibilità che ne esistano un quarto, un quinto…
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Non in questa storia. Magari in un universo parallelo, in un paese diverso, in un tempo diverso.
Per dire, 30 anni fa a Fulvio poteva andare diversamente. Negli anni ’80 poteva ancora avere qualche possibilità di trovare un ristoratore serio a cui importasse di servire piatti cucinati da qualcuno di capace, e non da qualcuno bravo con la bava di lumaca o che magari entrasse in cucina grazie a favori.
Sono cucine di cui faccio a meno, sinceramente. Piuttosto cucino da solo che mangiare in quei ristoranti.